Quiet quitting ed employee engagement: due facce della stessa medaglia

da | Ott 13, 2022

Arriva dagli Stati Uniti, come tutte le mode passeggere o meno, questo nuovo termine legato al mondo del lavoro: il quiet quitting.

Ne avrai forse sentito parlare, ma si tratta davvero di qualcosa di mai visto prima, o di nuovo c’è solo il nome?

In questo articolo approfondiamo cosa si intende per quiet quitting, le cause di questo fenomeno e come tenerlo ben lontano dalla tua azienda prestando un occhio più attento all’employee engagement.

Cos’è il quiet quitting

Letteralmente “dimissioni silenziose”, il termine quiet quitting ha preso particolarmente piede nel contesto americano negli ultimi mesi e sembra sia stato adottato più o meno timidamente anche in Italia.

Ma cos’è, in sostanza, il quiet quitting? Con questo termine, i lavoratori (appartenenti prevalentemente alle generazioni più giovani) indicano una determinata attitudine al lavoro: davanti a un’azienda nella quale non si sentono valorizzati o gratificati, decidono di dimostrare il proprio impegno nelle mansioni lavorative con il minimo entusiasmo possibile.

In altre parole, potremmo tradurre quiet quitting con “fare il minimo indispensabile”. Nello specifico, il lavoratore porta avanti le proprie mansioni lavorative per come sono descritte nel proprio contratto, rinunciando a esternare quello che molti HR descriverebbero come il tanto apprezzato spirito d’iniziativa.

Niente più “puoi rimanere un paio d’ore in più oggi?” o “puoi coprire anche il lavoro del tuo collega finché non rientra dalla malattia?”; la nuova frase chiave è “mi dispiace, ma non rientra nelle mie competenze”.

Ora, attenzione: questo approccio perde il suo significato se lo separiamo dal contesto in cui ha preso vita!

Sebbene una volta tradotto faccia, in un certo senso, meno paura, in quanto manager o capo d’azienda non devi incorrere nell’errore di dedurre che questa sia semplicemente l’ultima trovata di una generazione che non conosce cosa sia il “lavoro duro”.

La chiave di questa definizione, il nodo problematico, non è l’attitudine del lavoratore ma tutte quelle necessità che l’azienda per cui lavora ha ignorato fino a portarlo a prendere una decisione esasperata e finale.

La logica odierna porta le aziende a rincorrere i risultati, pressati da una forte competitività e dall’incedere dei cambiamenti socio-economici, perdendo di vista la persona come elemento cardine del processo strategico: il quiet quitting è solo una delle logiche conseguenze.

Le cause del quiet quitting

La produttività di un’azienda, le sue performance e la qualità dei suoi servizi dipendono fortemente dall’engagement dei dipendenti.

Viviamo in un periodo storico caratterizzato da forte stress in ogni ambito della vita, pieno di stimoli e di cambiamenti radicali dovuti dalla repentina evoluzione sociale e lavorativa, accelerata dalla pandemia.

Il cervello umano, sottoposto a questi stressor, non può che formulare un piano di auto-protezione, rinunciando a sottoporsi a qualsiasi attività che potrebbe ingrandire questo fardello e quindi aumentare le possibilità di deterioramento, sia questo fisico o mentale.

E cosa, se non una situazione lavorativa insoddisfacente, andrà a finire in coda alle priorità del nostro cervello?

Questa tendenza è riconosciuta già da qualche anno come fenomeno della Great Resignation, diffusosi a macchia d’olio anche in Italia.

Dall’ultimo rapporto Randstad Employer Brand Research (che ha coinvolto, in Italia, quasi 7000 persone tra i 18 e i 64 anni) emerge che per la forza lavorativa italiana il driver più importante è un’atmosfera di lavoro piacevole, seguita immediatamente dall’equilibrio tra vita professionale e vita privata, al contrario del lavoratore medio europeo che segnala al primo posto retribuzione e benefit.

Randstad ci dice anche che i 3 principali motivi ai quali ricondurre questo comportamento delle nuove generazioni sono mancanza di motivazione, insoddisfazione e mancanza di obiettivi chiari.

A questi dati possiamo aggiungere anche la sintesi di INPS sul numero di dimissioni dal 2018 al 2022: assistiamo infatti ad un incremento del 35% (spaventoso, se consideriamo che il 2022 non è ancora terminato).

Numeri importanti che fanno riflettere e che devono spingere l’imprenditore a prendere provvedimenti chiari: il quiet quitting non è certo l’ultimo gesto oltre il quale i dipendenti non sono disposti a spingersi. Le dimissioni “silenziose” potrebbero presto diventare dimissioni vere, con tutte le conseguenze del caso.

L’employee engagement come soluzione al quiet quitting

Non ne faccio un mistero nei miei articoli: credo fortemente che un’azienda debba costruire il proprio futuro sulla scelta corretta e strategica dei propri collaboratori, non solo basata sulle competenze ma anche e soprattutto sulle attitudini, sviluppando un percorso di crescita e di benessere organizzativo che deve essere alla base dello sviluppo aziendale.

Dalle persone nascono poi le procedure, le strategie, le idee condivise; ogni parte dell’azienda deve essere coinvolta nella vision aziendale.

Vien da sé che, se la tua azienda è carente da questo punto di vista, avrà bisogno di intraprendere un nuovo modello di formazione e crescita, che non parli solo di comunicazione o leadership, ma che si incentri su concetti come l’agilità, l’interazione e la neuroleadership.

Per arginare il fenomeno del quiet quitting, l’unico modo che mi sento di consigliarti è quello di instaurare un processo culturale di cambiamento: parti dalle persone, nel momento in cui le assumi; rendile consapevoli degli obiettivi aziendali al di là del profitto, di come il loro lavoro cambia il mondo, di come il prodotto o il servizio che offrite gioca a favore dell’umanità.

I ragazzi di oggi sono attenti alla visione: si parla di ecologia, di rinnovamento delle energie, di ambiente, di sfide sociali, di sviluppo per migliorare la qualità della vita; fai di questi valori universali degli elementi chiave della tua azienda e ne troverai giovamento in tutti i campi, non solo in quello delle risorse umane (ne parlo in modo più approfondito nell’articolo: La vision aziendale: cos’è e perché è importante).

Se dovessi riassumere i miei suggerimenti per ogni manager e imprenditore, ti indicherei questi 5 punti:

  1. Orienta le tue strategie tenendo al primo posto le persone;
  2. Dai alle persone modo di crescere e sviluppare i propri talenti, basando la loro formazione su criteri scientifici e non so vecchi paradigmi cognitivi;
  3. Implementa procedure semplici e snelle;
  4. Coinvolgi i tuoi dipendenti e collaboratori molto più di quanto tu non stia già facendo;
  5. Distribuisci feedback continui e costruttivi sul loro operato.

E, soprattutto, ricordati che in quanto manager o imprenditore, è tuo dovere personale rimanere aggiornato e informarti continuamente delle esigenze dei tuoi lavoratori: chiamare la tua azienda una famiglia implica che l’impegno e la dedizione che ti aspetti dai tuoi collaboratori venga ricambiata da parte tua in ugual maniera.

Puoi iniziare leggendo questo articolo: Come aumentare il benessere dei dipendenti

e puoi unirti al mio webinar, il 3 novembre 2022 alle 18:45, dal titolo A un passo dalla leadership: le neuroscienze entrano in azienda.

Sull'autore

Roberto Patricolo

Sono sempre stato affascinato dal perché delle cose: la curiosità sul funzionamento della natura umana e delle relazioni interpersonali mi accompagna fin dall’infanzia, ed è ora un lavoro che svolgo con passione e soddisfazione.
Credo fermamente nell’equivalenza tra benessere e produttività, a qualsiasi livello: con tutte le competenze e le esperienze che ho vissuto fino ad oggi, sono qui per renderti la migliore versione di te stesso.

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